Non sussiste incompatibilità tra la legge sull’equo compenso e il codice dei contratti pubblici

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Dopo il Tar Veneto ( vedi La prima pronuncia sull’applicazione dell’equo compenso: ribasso ammesso sulle sole spese generali – Giurisprudenzappalti) è la volta del Tar Lazio a confermare come non vi sia  incompatibilità tra la legge sull’equo compenso e il codice dei contratti pubblici.

Questo quanto stabilito da Tar Lazio, Roma, Sez. Quinta Ter, 30/04/2024, n. 8580:

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3. Passando agli aspetti sostanziali della vicenda, è opportuno dare sinteticamente conto della nuova disciplina dell’equo compenso (per quanto oggi di interesse).

3.1. Come è noto, la legge n. 49/2023, pubblicata nella G.U. 5 maggio 2023, n. 104 (entrata in vigore il 20 maggio 2023), ha riscritto le regole in materia di corrispettivo per le prestazioni professionali, garantendo la percezione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, ossia – per quanto qui rileva – conforme ai compensi previsti “per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27” (art. 1, co. 1, lett. b).

Ai sensi dell’art. 2, co. 1, tale disciplina “si applica ai rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività professionali svolte in favore di imprese bancarie e assicurative nonché delle loro società controllate, delle loro mandatarie e delle imprese che nell’anno precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di cinquanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro”. Le medesime disposizioni “si applicano altresì alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175” (art. 2, co. 3).

Il legislatore ha quindi stabilito la nullità delle clausole che non prevedano un compenso equo e proporzionato all’opera prestata (art. 3), introducendo una nullità relativa o di protezione che consente al professionista di impugnare la convenzione, il contratto, l’esito della gara, l’affidamento, la predisposizione di un elenco di fiduciari o comunque qualsiasi accordo che preveda un compenso iniquo innanzi al Tribunale territorialmente competente in base al luogo in cui ha la residenza, per chiedere la rideterminazione del compenso per l’attività professionale prestata con l’applicazione dei parametri previsti dal decreto ministeriale relativo alla specifica attività svolta.

3.2. Orbene, a differenza di quanto affermato – con articolate argomentazioni – dalla parte ricorrente, si deve ritenere che non vi sia contrasto tra le disposizioni appena illustrate e la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) o il “diritto di prestare servizi in regime di concorrenzialità” (artt. 101 TFUE e 15 direttiva 2006/123/CE) (come viceversa sostenuto dalla società istante, cfr. pagg. 13 e ss. e 25, memoria depositata in data 29 marzo 2024), né “ontologica incompatibilità” tra la stessa legge e la disciplina di cui al d.lgs. n. 36 del 2023 (cfr. pagg. 8 e ss. e pag. 24, memoria depositata in data 29 marzo 2024).

3.3. Con riferimento all’asserita incompatibilità della disciplina dell’equo compenso con il diritto eurounitario, in giurisprudenza si è già condivisibilmente affermato come la prima “non sia in grado di pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano da parte di operatori economici di altri Stati dell’Unione Europea […]. Si tratta […] di un rafforzamento delle tutele e dell’interesse alla partecipazione alle gare pubbliche, rispetto alle quali l’operatore economico, sia esso grande, piccolo, italiano o di provenienza UE, è consapevole del fatto che la competizione si sposterà eventualmente su profili accessori del corrispettivo globalmente inteso (ad esempio, […] sulle spese generali) e, ancor di più sul profilo qualitativo e tecnico dell’offerta formulata. […] il meccanismo derivante dall’applicazione della legge n. 49/2023 è tale da garantire sia dei margini di flessibilità e di competizione anche sotto il profilo economico, sia la valorizzazione del profilo qualitativo e del risultato, in piena coerenza con il dettato normativo nazionale e dell’Unione Europea” (Tar Veneto, sez. III, 3 aprile 2024, n. 632).

Neppure potrebbe giungersi a conclusioni diverse in forza del richiamo fatto dalla ricorrente alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare, alla sentenza 4 luglio 2019, nella causa C-377/17 – pronuncia che non afferma, invero, la sussistenza di preclusioni assolute, riconoscendo, viceversa, in capo agli Stati Membri il potere di introdurre tariffe minime per le prestazioni professionali che siano non discriminatorie, necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale ex art. 15, par. 3, della direttiva 2006/123/CE – o alla recente sentenza 25 gennaio 2024, nella causa C-438/22 (pag. 14 memoria di parte ricorrente depositata il 29 marzo 2024), che ha affermato l’obbligo di rifiutare l’applicazione di una normativa che fissi importi minimi degli onorari degli avvocati.

Va, infatti, considerato che nel caso oggetto di quest’ultima pronuncia gli importi erano stati determinati dal Consiglio superiore dell’Ordine forense della Bulgaria“in assenza di qualsiasi controllo da parte delle autorità pubbliche e di disposizioni idonee a garantire che esso si comporti quale emanazione della pubblica autorità”: la Corte ha cioè ritenuto come tale organismo agisse alla stregua di “un’associazione di imprese, ai sensi dell’articolo 101 TFUE” (§ 44, sent. cit.), nel perseguimento di un proprio interesse specifico e settoriale (realizzando un’ipotesi di “determinazione orizzontale di tariffe minime imposte, vietata dall’art. 101, paragrafo 1, TFUE”), in un contesto, quindi, del tutto diverso da quello oggetto del presente giudizio, in cui rilevano norme di carattere generale (la l. n. 49/2023 e gli inerenti decreti ministeriali) adottate da autorità pubbliche e, per questo, non sussumibili nell’ambito (soggettivo e oggettivo) di applicazione dell’art. 101 TFUE (rivolto a vietare “tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno”).

3.4. Va altresì escluso l’ipotizzato (dalla ricorrente) “disallineamento” tra la legge n. 49/2023 e il d.lgs. n. 36/2023, alla luce dell’indirizzo secondo cui “un’antinomia può configurarsi ‘in concreto’ allorché – in sede di applicazione – due norme connettono conseguenze giuridiche incompatibili ad una medesima fattispecie concreta. […] Nell’ipotesi in esame, l’interpretazione letterale e teleologica della legge n. 49/2023 depone in maniera inequivoca per la sua applicabilità alla materia dei contratti pubblici” (Tar Veneto, n. 632/2024, cit.).

3.4.1. In particolare, non merita accoglimento la tesi di parte ricorrente laddove esclude che “la disciplina dettata dalla L. 49/2023 sia idonea a perseguire il proprio obiettivo anche in materia di appalti pubblici”, in quanto nessuna esigenza di protezione vi sarebbe “quando la prestazione avviene istituzionalmente tramite il libero confronto tra gli operatori” alla “presenza di offerte libere e adeguatamente ponderate da parte degli offerenti” e con la garanzia di “adeguati meccanismi atti proprio ad evitare la presentazione di offerte eccessivamente basse e quindi non sostenibili (anomalia dell’offerta)” (pag. 15, memoria 29 marzo 2024).

Invero, la legge n. 49/2023, oltre a perseguire obiettivi di protezione del professionista, mediante l’imposizione di un’adeguata remunerazione per le prestazioni da questi rese, contribuisce, tra l’altro, analogamente al richiamato giudizio di anomalia dell’offerta, a evitare che il libero confronto competitivo comprometta gli standard professionali e la qualità dei servizi da rendere a favore della pubblica amministrazione.

Risulta dunque indimostrato che la legge sull’equo compenso venga a collidere con le disposizioni del codice dei contratti pubblici che assicurano il confronto competitivo tra gli operatori; del resto, analoghe perplessità non nutre il ricorrente in relazione ad altre disposizioni parimenti poste a presidio dell’esatto adempimento, come, appunto, quelle in materia di anomalia (la cui finalità è di evitare che offerte troppo basse espongano l’amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta e con modalità esecutive in violazione di norme, con la conseguente concreta probabilità di far sorgere contestazioni e ricorsi”, Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2022, n. 8330).

3.4.2. La prospettata incompatibilità tra la legge sull’equo compenso e il codice dei contratti pubblici è in ogni caso smentita dal dato testuale.

Da un lato, la legge n. 49/2023 prevede esplicitamente l’applicazione alle prestazioni rese in favore della P.A., senza esclusioni, dall’altro lato, l’art. 8 del d.lgs. n. 36/2023 impone alle pubbliche amministrazioni di garantire comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso nei confronti dei prestatori d’opera intellettuale (salvo che in ipotesi eccezionali di prestazioni rese gratuitamente).

3.4.3. Né può condividersi l’ulteriore argomento basato sull’asserita diversità del tenore letterale dei commi 1 e 3 dell’art. 2 della l. n. 49 del 2023.

In particolare, la società ricorrente valorizza la circostanza che, se, da un lato, il comma 1 del predetto art. 2 ha cura di specificare che l’equo compenso si applica ai rapporti aventi a oggetto la prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 c.c., regolamentati da convenzioni aventi a oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività professionali prestate a favore di imprese bancarie e assicurative, delle loro società controllate e delle loro mandatarie, imprese che, nell’anno precedente al conferimento dell’incarico, hanno occupato alle proprie dipendenze più di 50 lavoratori ovvero hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro, dall’altro lato, il comma 3 si limita a prevedere “lapidariamente” l’applicabilità della legge alle “prestazioni rese dai professionisti in favore della Pubblica Amministrazione”.

In sintesi, secondo parte ricorrente, nel “declinare la disciplina dell’equo compenso anche in relazione ai servizi intellettuali forniti alla p.a., significativamente, la norma [farebbe] riferimento ai soli professionisti senza estendere il campo di applicazione anche ai servizi forniti dai medesimi in forma associata o societaria” (pag. 25, memoria 29 marzo 2024). Nei rapporti con la P.A., la legge sull’equo compenso sarebbe cioè applicabile esclusivamente alle prestazioni rese da singoli liberi professionisti, che trovino “fondamento in un contratto d’opera caratterizzato dall’elemento personale” (“in cui il singolo professionista assicura lo svolgimento della relativa attività principalmente con il proprio lavoro autonomo”, pag. 17, memoria 29 marzo 2024), con l’esclusione, invece, delle prestazioni rese da società e imprese, laddove vi è “una articolata organizzazione di mezzi e risorse e […] assunzione del relativo rischio imprenditoriale” (pag. 17, memoria 29 marzo 2024, e pag. 30, ricorso). Ciò in quanto soltanto il professionista singolo si troverebbe nella condizione del “contraente debole” da tutelare, mentre nei confronti di chi esercita la professione in forma associata o societaria, vi sarebbe un “certo grado di minore dominanza della posizione degli Enti pubblici” (cfr. pag. 25, memoria 29 marzo 2024).

La prospettazione non è condivisibile.

In primo luogo, la scelta di applicare la disciplina sull’equo compenso esclusivamente alle prestazioni di natura intellettuale rese in favore della P.A. dal singolo professionista, che non necessiti (o comunque non si avvalga) di un’organizzazione di mezzi e risorse, sarebbe difficilmente giustificabile dal punto di vista logico, considerata l’ontologica corrispondenza tra le prestazioni rese dal singolo e quelle rese nell’ambito di una società/impresa (tanto più che per “servizi di natura intellettuale” oggetto di appalto, come i servizi di ingegneria e architettura, si intendono “quelli che richiedono lo svolgimento di prestazioni professionali, svolte in via eminentemente personale, costituenti ideazione di soluzioni o elaborazione di pareri, prevalenti nel contesto della prestazione erogata rispetto alle attività materiali e all’organizzazione di mezzi e risorse”; Cons. Stato, sez. V, 21 febbraio 2022, n. 1234).

Inoltre, considerato che, da un lato, l’ordinamento lascia libero il professionista di scegliere di svolgere la propria attività come singolo o in forma associata e che, dall’altro, lo stesso art. 66 del d.lgs. n. 36/2023 stabilisce che “[s]ono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria nel rispetto del principio di non discriminazione fra i diversi soggetti sulla base della forma giuridica assunta: a) i prestatori di servizi di ingegneria e architettura: i professionisti singoli, associati, le società tra professionisti di cui alla lettera b), le società di ingegneria di cui alla lettera c), i consorzi, i GEIE, i raggruppamenti temporanei fra i predetti soggetti (…)”, imporre il rispetto della norma sull’equo compenso soltanto per le prestazioni rese dal professionista che operi (e partecipi a una procedura a evidenza pubblica) uti singuli avrebbe l’effetto di concretizzare una inammissibile disparità di trattamento tra quest’ultimo e i professionisti che, viceversa, operino (e concorrano) nell’ambito di società, associazioni o imprese, i quali ultimi potrebbero in ipotesi trarre vantaggio dalla mancata applicazione della normativa in materia di equo compenso e quindi praticare ribassi sui compensi (con la presentazione di offerte verosimilmente più “appetibili”).

3.4.4. Né può ravvisarsi un’incompatibilità tra la legge sull’equo compenso e l’art. 108, co. 2, del codice dei contratti pubblici, nella parte in cui impone l’applicazione del “criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo” ai “contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo pari o superiore a 140.000 euro”.

E invero, la legge n. 49/2023 non preclude l’applicabilità ai contratti in questione del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa: il compenso del professionista è, infatti, soltanto una delle componenti del “prezzo” determinato come importo a base di gara, al quale si affiancano altre voci, relative in particolare a “spese ed oneri accessori” (peraltro, anche la delibera ANAC n. 101 del 28 febbraio 2024 non esclude la legittimità delle tre ipotesi contemplate nel bando-tipo n. 2/2023: a) procedura di gara a prezzo fisso in virtù dell’applicazione della l. n. 49/2023 a tutte le voci del corrispettivo posto a base di gara; b) procedura di gara da aggiudicare secondo il criterio dell’OEPV, con ribasso limitato alle sole spese generali; c) inapplicabilità della disciplina sull’equo compenso, con conseguente ribassabilità dell’intero importo posto a base di gara).

3.4.5. Infine, non si può ritenere che l’art. 41, comma 15, e l’all. I.13 al d.lgs. n. 36/2023 individuino nelle tariffe professionali i criteri per la determinazione del (solo) importo da porre a base di gara, non precludendo affatto l’applicabilità di un ribasso alla base d’asta così composta (cfr. pag. 23, memoria parte ricorrente 29 marzo 2024).

Delle disposizioni da ultimo menzionate va, infatti, offerta un’interpretazione coerente con il richiamato art. 8 dello stesso d.lgs. n. 36/2023, ai sensi del quale, come detto, le pubbliche amministrazioni debbono garantire comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso nei confronti dei prestatori d’opera intellettuale.

3.5. Chiariti la portata delle norme in materia di equo compenso e il rapporto con le norme del d.lgs. n. 36/2023, vanno dunque respinte tutte le censure mosse al gravato provvedimento di esclusione e quelle rivolte, in via subordinata, alla disciplina di gara, la quale, lungi dall’introdurre una clausola di esclusione non prevista dalla legge, ha dettato regole conformi all’esaminata disciplina primaria.

A cura di giurisprudenzappalti.it del 30/04/2024 di Roberto Donati

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