FOCUS: “Certificazione di parità di genere, avvalimento e RTI nel nuovo Codice dei contratti pubblici: il perimetro tracciato dal Consiglio di Stato”

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Con la sentenza n. 3117 dell’11 aprile 2025, la Sezione VI del Consiglio di Stato si pronuncia su un tema di crescente attualità nel diritto dei contratti pubblici: la natura e la rilevanza della certificazione di parità di genere nel quadro dei Raggruppamenti Temporanei di Imprese (RTI) e dell’avvalimento, alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici di cui al D.lgs. n. 36/2023.

La pronuncia contribuisce a delineare i confini applicativi degli strumenti di cooperazione tra operatori economici rispetto a requisiti e premialità non trasmissibili, rafforzando il principio per cui alcune caratteristiche organizzative dell’impresa — in particolare quelle legate ai valori sociali — costituiscono requisiti soggettivi personali e non delegabili.

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Il quadro normativo: certificazione di parità di genere come leva di premialità

Ai sensi dell’art. 46-bis del D.Lgs. n. 198/2006, introdotto dalla Legge n. 162/2021, la certificazione di parità di genere attesta l’adozione da parte delle imprese di politiche inclusive, strutture organizzative equilibrate e prassi aziendali volte alla riduzione del divario di genere, in coerenza con la prassi UNI/PdR 125:2022.

Il nuovo Codice dei contratti pubblici, all’art. 108, comma 7, attribuisce a tale certificazione un valore premiale, disponendo che le stazioni appaltanti possano prevedere l’assegnazione di punteggi aggiuntivi in sede di valutazione dell’offerta tecnica.

Si tratta, dunque, di un elemento migliorativo, ma non di un requisito di ammissione alla gara, il cui possesso può incidere in termini competitivi, senza però condizionare l’accesso alla procedura.

La qualificazione giuridica: requisito soggettivo non delegabile

Riprendendo un orientamento ormai consolidato, il Consiglio di Stato ribadisce che la certificazione di parità di genere costituisce requisito soggettivo proprio dell’impresa, espressione della qualità organizzativa e della cultura aziendale, e per tale ragione non è suscettibile di avvalimento.

L’avvalimento, disciplinato dall’art. 104 del D.Lgs. n. 36/2023, si articola in due tipologie:

  • avvalimento qualificante, relativo ai requisiti di partecipazione;
  • avvalimento premiale, concernente elementi migliorativi dell’offerta.

In entrambi i casi, tuttavia, esso presuppone la trasmissibilità della capacità oggetto di avvalimento, che deve essere tecnicamente ed economicamente fungibile. Questo non vale per la certificazione di parità di genere, che riflette un profilo identitario dell’impresa, non scindibile né "prestabile" ad altri soggetti.

RTI e uniformità soggettiva: condizione per la premialità

Uno dei profili più significativi della sentenza attiene all’applicazione del principio di uniformità soggettiva nei RTI.

Il Consiglio di Stato afferma che, laddove la lex specialis richieda il possesso della certificazione da parte di tutti i componenti del RTI, è legittimo subordinare l’attribuzione del punteggio premiale a tale condizione.

Non è sufficiente, dunque, che la certificazione sia posseduta solo da uno dei membri del raggruppamento.

Nel caso di specie, il Disciplinare di gara era chiaro nel subordinare l’attribuzione del punteggio aggiuntivo alla presenza del certificato in capo a tutti i partecipanti al raggruppamento (criterio m).

Tale impostazione trova giustificazione nella responsabilità solidale assunta dai membri del RTI in fase esecutiva, e risponde alla finalità di promuovere prassi aziendali diffuse e condivise, e non isolate.

Esclusione, punteggio e sanzioni: l’equilibrio tra incentivazione e integrità

La sentenza chiarisce inoltre che la mancanza della certificazione non comporta l’esclusione dalla procedura, salvo diversa previsione della lex specialis, ma determina unicamente la perdita del beneficio premiale.

Ben diverso è il caso in cui un concorrente cerchi di ottenere indebitamente tale punteggio, facendo ricorso a forme improprie di avvalimento o a dichiarazioni non veritiere.

In tali ipotesi, possono scattare conseguenze rilevanti:

  • esclusione dalla gara per violazione degli obblighi di integrità (art. 98, comma 3, lett. a, D.Lgs. 36/2023);
  • segnalazione all’ANAC ai fini del casellario informatico;
  • eventuale procedimento per la sospensione o interdizione dalla partecipazione a gare pubbliche.

Viene così ribadita la centralità del principio di veridicità delle dichiarazioni e del divieto di strumentalizzazione degli strumenti collaborativi nei contratti pubblici.

Considerazioni conclusive

La sentenza n. 3117/2025 si inserisce in un percorso giurisprudenziale volto a rafforzare il ruolo dei valori sociali nel sistema degli appalti pubblici.

La certificazione di parità di genere non è più un mero accessorio reputazionale, ma un indicatore qualitativo concreto, destinato a incidere direttamente sulla valutazione dell’offerta.

Il Consiglio di Stato afferma tre principi chiave:

  1. Non avvalibilità della certificazione: trattandosi di requisito soggettivo, non è trasferibile, nemmeno in via premiale.
  2. Uniformità nei RTI: se previsto dalla legge di gara, il possesso del requisito deve essere esteso a tutti i componenti.
  3. Rilevanza della condotta: l’assenza della certificazione limita il punteggio, ma condotte elusive possono determinare l’estromissione dalla gara.

Si impone, quindi, una riflessione strategica da parte delle imprese che intendano partecipare a gare pubbliche: la compliance organizzativa, oggi più che mai, è fattore competitivo e leva di premialità.

La parità di genere, da valore etico, diventa così anche parametro tecnico-giuridico nel nuovo diritto degli appalti.

A cura della Redazione di TuttoGare PA del 20/05/2025

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