Interpretazione del contratto tra buona fede e “criterio funzionale”
Il Tar Lombardia, accogliendo il ricorso, ribadisce come il criterio ermeneutico di cui all’art. 1366 c.c. (buona fede) vada letto in combinato disposto con il criterio c.d. funzionale di cui al successivo art. 1369 c.c., secondo il quale “le espressioni che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.
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SCARICA GRATIS LA GUIDAQuesto quanto stabilito da Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 05/06/2023, n. 1400:
La censura è fondata.
4.1) Va preliminarmente rammentato che l’istituto della revisione dei prezzi ha una duplice finalità: da un lato tutela l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non subiscano una diminuzione qualitativa a causa dell’eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, con ciò impedendo al fornitore di farvi fronte (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, n. 435 del 18 febbraio 2021; Cons. di Stato, Sez. VI, n. 2295 del 7 maggio 2015; Cons. di Stato, Sez. V, n. 3994 del 20 agosto 2008; Cons. di Stato, Sez. III, n. 4985 del 20 agosto 2018); dall’altro garantisce l’equilibrio contrattuale del rapporto negoziale di durata, evitando che il corrispettivo della prestazione pattuita subisca aumenti incontrollati (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, n. 2052 del 23 aprile 2014; Cons. di Stato, Sez. III, n. 1074 del 4 marzo 2015).
Di conseguenza, l’art. 115 del d.lgs. 163/2006 rappresenta un rimedio conservativo dell’equilibrio economico del contratto, volto a gestire le sopravvenienze giuridicamente rilevanti, intervenute nel corso di un rapporto contrattuale di durata (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, n. 435 del 18 febbraio 2021; cfr. Corte Cost. 447/2006).
Il meccanismo revisionale opera sulla base di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, che è espressione di un potere autoritativo di carattere tecnico-discrezionale (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, n. 4207 del 6 agosto 2014; id. Sez. V, n. 4444 del 3 agosto 2012).
La ratio dell’istituto ora richiamata impone che l’attività amministrativa volta al riconoscimento e alla quantificazione del compenso tenga conto dello squilibrio effettivamente verificatosi a causa di fatti sopravvenuti e, pertanto, dei costi realmente sostenuti dall’impresa, per evitare che attraverso la revisione del prezzo si realizzi un ingiustificato arricchimento in favore della controparte.
Alla clausola di revisione prezzi si applicano i criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c. in ordine all’interpretazione del contratto, che, in generale, si estendono anche agli atti amministrativi, compresi i bandi di gara (Consiglio di Stato sez. III, 23/11/2022, n.10301; Consiglio di Stato sez. V, 17/07/2020, n. 4599).
A tal proposito, l’elemento letterale, pur assumendo funzione fondamentale nella ricerca della effettiva volontà delle parti, deve essere considerato congiuntamente agli ulteriori criteri e, in particolare, a quelli dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c., avuto riguardo allo “scopo pratico” perseguito dalle parti con la stipulazione del contatto, e quindi alla relativa “causa concreta” (Cass. Civ., Sez. 3, Ordinanza n. 34795 del 17/11/2021).
L’art. 1366 c.c. impone di interpretare le clausole del contratto secondo buona fede mentre, a norma dell’art.1369 c.c., le clausole suscettibili di assumere più significati devono essere intese in modo più conforme alla natura e all’oggetto del contratto (c.d. criterio funzionale).
Il dovere di comportarsi secondo buona fede oggettiva – che è espressione del canone di solidarietà sociale enunciato dall’art. 2 Cost. – esprime un principio generale dell’ordinamento, che impone di compiere quanto necessario o utile a tutelare gli interessi della controparte, nei limiti di un proprio apprezzabile sacrificio.
Sul punto, la Relazione ministeriale al codice civile specifica il perimetro del principio di buona fede, il quale “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”.
Esso dunque non solo è fonte di obbligazioni a partire dalla fase precontrattuale (artt. 1337 e 1338 c.c.) sino a quella esecutiva del contratto (artt. 1375 e 1175 c.c.), ma coinvolge altresì l’interpretazione dell’accordo negoziale.
Quale strumento ermeneutico, la buona fede si sostanzia nel “non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte contrattuale” (Cass., Sez. III, n. 6675 del 19.03.2018; Cass., Sez. III, n. 11295 del 23/05/2011).
Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale (Cass., n. 23701 del 22/11/2016).
Le considerazioni che precedono permettono di superare interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti al significato conforme alla ragion pratica o causa concreta del negozio (Cass., Sez. III, n. 23701/2016).
Il criterio ermeneutico di cui all’art. 1366 c.c. va quindi letto in combinato disposto con il criterio c.d. funzionale di cui al successivo art. 1369 c.c., secondo il quale “le espressioni che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.
La norma citata guarda alla complessiva funzione economica perseguita dai contraenti e, nel dubbio, attribuisce al negozio il senso più consono alla sua funzione concreta e agli effetti essenziali divisati dalle parti.
In definitiva, i suddetti criteri servono per individuare, fra i vari significati di una clausola, quello che risulta più prevedibile e determinabile secondo una valutazione ex ante, nonché il più rispondente allo scopo concreto perseguito dai contraenti.
La giurisprudenza amministrativa ha più volte precisato che l’interpretazione secondo buona fede e quella c.d. funzionale del contratto, storicamente elaborate nel settore del diritto civile delle obbligazioni e dei contratti, trova piena cittadinanza nel diritto amministrativo, ogniqualvolta la formulazione di atti amministrativi dia adito a dubbi ermeneutici.
In questo senso, è stato osservato che “gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.a. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotta certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative” (Cons. di Stato, Sez. V., 29/07/2022, n. 6699; Cons. di Stato, Sez. V, 16/01/2013, n. 238; Cons. di Stato, 05/09/2011, n. 4980).
A cura di giurisprudenzappalti.it del 05/06/2023 di Roberto Donati
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